Dal Fiume al Mare, la Luna sotto lo stesso cielo

Il silenziamento delle voci che chiedono il Cessate il Fuoco è troppo persistente e propagato per essere ridotto a una disattenzione narrativa, ormai è prosa che intorpidisce volontariamente il livello di attenzione dell'"opinione pubblica".
Manifestando apertamente solidarietà al popolo palestinese, si subiscono facili ma pesanti accuse, dall’eco vittimistica; e nel peggiore dei casi violenta repressione.
Questo è invece il tempo di non temere distorsioni rispetto l’espressione a sostegno della libertà del popolo palestinese di vivere ed esistere su "quella" terra.
La parola "conflitto" polarizza e giustifica l’orrore cui stiamo assistendo, usiamo la parola genocidio.

collage, foto di Mohammed Abed + ritagli sparsi da riviste cartacee

Le immagini, le notizie spezzettate, ogni giorno entrano o rimbalzano nei nostri occhi dallo sguardo frettoloso, a volte distolto, perso nella velocità dei social media che modellano e appiattiscono le informazioni.
In certe immagini però, si incontrano occhi che parlano più dei trafiletti di giornale, oppure occhi che sappiamo non incontreranno di nuovo la luce del cielo.
Allora mi perdo e mi ritrovo nella veloce lentezza della sofferenza.

Lenta e tormentosa l’occupazione di milioni di persone, perpetrata dai coloni e dall’esercito israeliano, era già una lacerante voragine che ora è sprofondata ancor più, sgretolando le ultime parvenze di umanità, sfaldando la speranza, eppure questa in una dimensione sotterranea circola ancora, e a volte affiora.
Leggiamo i numeri - oltre 30 mila morti e 70 mila feriti -, che sono persone, ascoltiamo le dichiarazioni dei leader con il disprezzo senza veli per la vita dei palestinesi.

Tra chi si sente apaticamente lontano per impastarsi; chi è sopraffatto dal sentimento di impotenza; chi fattivamente si mobilita nell’aiuto umanitario, è soprattutto importante domandarsi se sia possibile giustificare la moltiplicazione della violenza.
Le imputazioni contro Israele finiscono anch’esse nella voragine, il processo (all’Aia) è definito (dal ministero degli Esteri israeliano) "una ipocrisia". Il teatro dei diplomatici occidentali, italiani inclusi, è lontano dal mettere in scena la giustizia. A poco serve l’accenno di mediazione, l’orrore è fomentato e legittimato da chi parla di "autodifesa".

Da decadi (75 anni) i palestinesi soffrono l’occupazione illegale e violenta, il regime di apartheid con venature messianiche che "giustificano" la pulizia etnica.
Prima, il contrappeso del piatto della "elezione" degli ebrei era la loro persecuzione, in un drammatico equilibrio, che però è spezzato nel momento in cui la religione ebraica è trasformata e usata come nazionalismo, con frustrazione di alcuni esponenti della comunità, a ben vedere, la cui voce è ancora una debole e scomoda minoranza.

La moltitudine di generazioni semplicemente è connaturata da questo ordine prestabilito, e le generazioni nascenti in Palestina trovano questa oppressione sedimentata.
Nel tempo quindi, si sono susseguite manifestazioni non violente e poi anche la resistenza violenta di riflesso. Negli anni, molti hanno avanzato ipotesi di futuro auspicabile per la Palestina, con versioni diverse, e soprattutto sostituendosi a quelle della Palestina.
E’ il caso di tracciare altri confini? La promossa soluzione "dei due Stati" è intrinsecamente esecrabile, e allo stesso tempo accettata come desiderabile. La contraddizione è insita nelle strade perseguite dal governo di Israele stesso, che la nega e la contrasta nella pratica, chiudendo nei fatti qualsiasi finestra di pace.
Tante parole, da chi è competente "in materia" sicuramente più di chi scrive, che "ingenuamente" vede solo cumuli di occhi tra macerie e "fortunate" tende.

Sento quel luogo, che diciamo mediorientale, non geograficamente e neppure simbolicamente lontano da noi, e la violenza diventa oltre che fisica, simbolica.
In un collage dove l’abisso spezzettato diventa l’unico cielo, insieme a simboli e fiori di resistenza, e speranza.
Ma la Palestina non è un simbolo, è una ferita verso cui scorriamo pulsando insieme, "dal fiume al mare".
Allora bevo un infuso di doloroso disincanto, con sentore di speranza.
Mentre ritaglio, con la musica nelle cuffiette e non ascoltando il prossimo bombardamento, preme una riflessione sulla decolonizzazione, che "non è una metafora".

Intanto, tra un foglio di carta e uno digitale, rispolveriamo dal dizionario il significato moderno di colonizzazione: i paesi (o terre) su cui uno Stato stabilisce con mezzi militari la propria sovranità e dei quali intende sfruttare a proprio vantaggio ogni bene (Treccani).
Così nell’approccio coloniale - che è l’insieme di appropriazione e distruzione di mondi altri in senso ampio, intesi come ecosistemi, terre, esseri viventi umani e non umani, conoscenze, insomma tutto ciò che è possibile possedere con la violenza caratterizzante questa strana visione e pratica del modello imperante di società moderna e "democratica" - si possono scorgere le radici e la responsabilità del genocidio in corso.
È bene ricordare con l’articolo (di Eve Tuck e K.Wayne Yang) "Decolonization is not a metaphor" che « la decolonizzazione non può essere un concetto che mette al riparo la coscienza delle società coloniali dalla loro responsabilità. »

Quindi sarebbe imprescindibile ripercorrere la "catastrofe" (nakba), i round di guerra, focalizzare la realtà territoriale sempre più frammentata, e i gruppi politici con ideologie divergenti... ci vorrebbero pagine e giorni per parlarne. Ma avrebbe senso questo ritornello per chi rifiuta di accettare l’evidenza?
Il motivo straziante che ritorna è la vita quotidiana di chi r-esiste in quei territori. Persone de-umanizzate e deprivate dei diritti umani, della libertà di movimento, della libertà.
Le vite degli esseri umani non possono essere in secondo piano rispetto alle minuziose analisi sulla guerra.

Allora interrompo la lettura di articoli, l’ascolto di video interviste, e mi bastano le immagini. Osservo le emozioni che queste immagini conservano e consegnano.
Le emozioni sono il collante, e sono immortalate quelle che ogni guerra tramanda.
Provo in modo concreto a sentirle, permeata confusamente dalla dimensione di guerra attraverso gli occhi di una bambina che la sta vivendo.
In quel momento mi strazia anche la Luna, che ugualmente illumina lo stesso cielo che ci avvolge, eppure in modo così ingiustamente diverso.
Chissà se la bambina può vedere la Luna, tra i bagliori delle esplosioni.
In un abbraccio con la madre-Terra, c’è bisogno di Pace, di futuro che sopravvive al dolore, che vive nella poesia, nell’arte che si fa voce coraggiosa.
Possiamo essere quella voce che dice Stop al genocidio.

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